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Articolo giornalistico dedicato a Don Liborio Romano, raccolto da Giovanni Spano

Titolo: VOLTAGABBANA? MACCHE'... era solo Liborio Romano

Liborio Romano entrò presto, e con qualche ragione, nel mirino della polizia borbonica. La sua famiglia – fratelli, padre e altri parenti – non era devota senza macchia della dinastia, come il ceto avrebbe invece consigliato. Carboneria e massoneria erano presenti in casa, e quelle erano cose che si sapevano e arrivavano facilmente all’orecchio della polizia. Don Liborio Romano, a Napoli era un avvocato capace persino di difendere gli interessi della corte inglese, che re Ferdinando II di Borbone voleva estromettere dallo sfruttamento delle zolfare siciliane. Quella volta l’avvocato Romano non volle portare la causa fino al giudizio, ma ottenne un compromesso grandioso, che salvò gli intereressi britannici e le prerogative della corte borbonica. Naturalmente i Borbone se l’erano legata al dito, ma intanto Romano intascò una lauta parcella, e così al tribunale cominciò a essere considerato avvocato principe. Dopo l’unità d’Italia si diceva che avesse difeso pure i camorristi, ed era vero, ma non si capisce perché quelli non dovessero avere una difesa nei processi. Anche questo alla corte dei Borbone lo si sapeva, e venne il momento in cui servì.
Ma vediamola con ordine la storia di Liborio Romano. Era nato a Patù, villaggio di un migliaio di anime nell’estreno sud del meridionale Salento, il 27 ottobre 1793. Liborio era il primogenito dei sette figli di Alessandro e Giulia Maglietta; aveva tre sorelle e tre fratelli. Gli anni della sua prima giovinezza non lasciarono ricordo. Confinato laggiù nel Salento, incominciò a studiare nel paese. Quindi, fino a quindici anni fu a Lecce, con un precettore d’idee liberali che sembra lo facesse simpatizzare per la Carboneria. Subito dopo venne mandato all’università di Napoli, ma si laureò in legge a ventisei anni, nel 1819. In quello stesso anno ottenne l’incarico di sostituto sulla cattedra di diritto civile e commerciale. Si dedicò quindi alla professione forense, ma ebbe obbligo di residenza a Napoli. Mise entusiasmo nelle agitazioni per la costituzione e il governo lo nominò (1820) commissario in Terra d’Otranto per riportare all’ordine gli sbandati. Ma per il suo coinvolgimento nei moti del 1820-21, perde l’insegnamento. Con la stretta repressiva del ‘21, sostenuta dalle baionette austriache chiamate da re Ferdinando I, venne mandato in soggiorno obbligato a Patù. Dopo due anni venne autorizzato a stabilirsi a Lecce, ma dovette esercitare la professione legale sotto sorveglianza della polizia. Romano si legò presto ai movimenti di opposizione ai Borbone. Nel 1828 venne incarcerato per un anno a Santa Maria Apparente, a Napoli..
Nel 1848 caldeggiò la costituzione e si schierò a fianco dei liberali. Nello stesso anno si vota e Romano, che sembrava il candidato naturale, fallì invece l’elezione per quattro voti (ne ottenne 496 anziché 500). Si ripresentò lo stesso anno e fallì di nuovo. Cominciò quindi la sua persecuzione più intensa da parte del governo e gli venne impedito di tornare a Napoli. Dopo due anni gli si consentì di lasciare Patù e di tornare a Lecce. Nel febbraio 1850 venne di nuovo arrestato e restò incarcerato per due anni senza processo. Quindi gli venne intimato l’esilio. Rimpatriato, la polizia lo sorveglia in modo da rendergli difficile la professione; nel settembre 1859, saputo di un nuovo ordine di arresto per sé e per il fratello Giuseppe, si dette alla latitanza. Nel 1860 poté tornare alla professione legale, ma sotto sorveglianza di polizia. Insomma, di galera Liborio aveva fatto più di tre anni, in due riprese. Si era fatto poi quasi quattro anni di esilio, prima nella provincia francese, a Montpellier nella Linguadoca (1852-53) perché Parigi gli era stata interdetta, ma negli anni 1853-54 clandestinamente si trasferì nella capitale e alla fine subì pure la residenza obbligata a Napoli. Tutto questo rappresentò una rovina finnziaria, ma l’abile Liborio, con la professione forense si fece una clientela che lo portò a essere uno dei principi del foro napoletano.
I Borbone avevano reso difficile la vita a tutta la sua famiglia: incarcerato ed esiliato in Francia fu anche il fratello Gaetano, mentre perseguitato – lo ricorderà egli stesso nella dedica delle Memorie politiche – erano stati i fratelli e altri congiunti. Era stato ordinato anche l’arresto del fratello, Giuseppe, il quale se la scampò, perché marito dell’ereditiera inglese Paola Close e per l’amicizia di Sir William Temple, plenipotenziario inglese a Napoli e fratello di Lord Henry John Temple, 3rd Viscount Palmerston, che aveva fatto parte più volte del gabinetto e dal 1855 era premier inglese. Giuseppe Romano, fratello di Liborio, aveva viaggiato in Francia e in altri paesi europei e aveva relazioni molto influenti. Cognato di Giuseppe era James Close, il quale gestiva fiorenti commerci a Napoli ed era il tramite per il conferimento di un mandato del governo inglese a Liborio Romano per la difesa nella questione delle zolfare in Sicilia, che il governo borbonico voleva confiscare.
Terminata la stretta repressiva, Liborio Romano poté tornare alla professione legale. Il 26 e 27 giugno 1860 a Napoli scoppiano gravi disordini, vengono disarmati e feriti uomini della polizia, arse le carte degli uffici pubblici. Gli insorti non commettono furti e affidano alle mani dei parrochi il denaro e gli oggetti di valore trafugati. Ma fra i lazzari si diffonde l’idea del saccheggio, i negozi si chiudono, la città è impaurita. Nella notte fra il 27 e il 28 vengono fatte premure al Romano perché assumesse temporaneamente la carica di prefetto di polizia (ministro era Federico Del Re, incapace di fronteggiare la difficile situazione). Romano nelle sue memorie dichiara di avere accettato quella carica per “debito cittadino”. Prende nelle mani la situazione e attua – come ricorda nelle sue memorie - una “mite forma dello stato d’assedio”, indirizza un manifesto alla cittadinanza, proibisce gli assembramenti ed esorta i napoletani a concorrere al mantenimento dell’ordine. In questo frangente, Romano si rivela un politico intelligente, perché lascia da parte gli strumenti consueti della violenza poliziesca e si affida alla collaborazione dei cittadini. Il manifesto fatto affiggere da Romano e le voci che fa diffondere sui suoi proponimenti, riportarono la calma in città. Fu un successo enorme per Liborio Romano. La sua capacità - novità assoluta per quei tempi a Napoli – di capire e governare l’opinione pubblica, sono i primi segnali di una intuizione politica che cercava degli sbocchi significativi. Romano, in quella prima occasione di pubbliche responsabilità elaborò il convincimento che la polizia dovesse essere a contatto dei cittadini e non costituire mera forza d’urto repressivo. Il primo luglio 1860 fece rimettere in vigore la costituzione del 1848, venne tolto lo stato d’assedio e convocato il parlamento per il 10 settembre. Romano venne assecondato dal capo del governo, Spinelli. Sotto la spinta di Romano si mise mano ai progetti di legge elettorale, di istituzione della guardia nazionale, dell’organizzazione amministrativa, del consiglio di stato e della stampa. Il Romano dimostrò quindi di avere influenza anche al di là dei compiti ristretti del suo ufficio. Cerca anche di fare in modo che del malcontento popolare non si giovi il partito sanfedista. Romano sollecitò quindi l’istituzione della guardia nazionale. Il re, è lo stesso Romano a ricordarlo, lo chiamava il “tribuno Romano”. Nel giugno del 1860 il re cominciò ad avvertire problemi. Fece avviare perciò un sondaggio nei confronti del Romano, per conoscere la sua disponibilità ad assumere il portafoglio di grazia e giustizia. Da prefetto di polizia Liborio Romano è promotore di significative riforme. Una particolare attenzione Romano la rivolse verso le carceri, che egli conosce per averle praticate per circa tre anni. Romano per carattere, non perde mai tempo. Con una ordinanza immediata (9 luglio 1860) dispone perciò la soppressione delle “segrete” prigioni sotterranee, fredde, oscure, isolate, con celle anguste e ottenne un rescritto per l’abolizione della pena corporale delle legnate insieme a una regolamentazione più umana del regime carcerario.
La spedizione dei mille dopo lo sbarco a Marsala (11 maggio), intanto avanza e con la conquista di Palermo (27-30 maggio) la partita per i Borbone appariva realisticamente disperata. Dopo la sconfitta di Milazzo e la contemporanea caduta di Messina (20 luglio) col ritiro dell’esercito borbonico in Calabria di fronte all’invasione, non c’era più speranza per il governo borbonico. L’esercito borbonico non resiste in modo significativo, la Sicilia è perduta. Il governo provvisorio, dopo l’ingresso al centro della capitale nella carrozza di Garibaldi, riceve l’incarico di proporlo proprio lui, Liborio Romano. Non ne sarà formalmente il capo, perché il capo di tutto è solo Giuseppe Garibaldi, ma Liborio Romano è riuscito a farsi dare dal dittatore il compito di proporre i ministri, e lo fa con la sua consueta sapienza politica: dire dalle memorie la ripartizione. A Romano, ascoltato proponente della composizione del gabinetto, resta un ruolo forte, specialmente in quel momento: un ruolo per il quale ha già dato prova. Dunque Romano riceve l’incarico di ministro dell’interno e della polizia. C’è un’esperienza nuova nella vita politica, che Romano non conosceva. Ma presto si accorge che il suo ruolo nel governo di Garibaldi non conta proprio nulla. A decidere tutte le cose importanti è il dittatore, e questo ha una sua logica e c’era da aspettarselo. Ma l’uomo forte del governo non fa parte del governo: è il segretario generale, Costantino Nigra, il quale di fatto sovrasta tutti i ministri, tratta direttamente ogni cosa con Garibaldi, decide, ordina, dispone, amministra. Quel modello di governo di fatto, rimarrà in Italia, parzialmente con i governi liberali post-risorgimentali, più accentuato durante il fascismo (con trasferimento di competenze agli organi di partito), in qualche misura durante l’era democristiana, fino al trionfo assoluto negli anni più recenti. Quell’esperienza durò soltanto quattordici giorni, ma lascia dei segni nell’arretrata amministrazione borbonica. Da prefetto di polizia emana un provvedimento nel quale, premesso che “i luoghi di custodia pei detenuti e per gli imputati debbono servire all’unico scopo di assicurarsi delle persone dei colpevoli per garanzia della giustizia e non mai a quella di soggettarsi a privazioni e sofferenze, incompatibili con i principii di umanità e di ragione, su cui deve poggiare il sistema di prevenzione e di espiazione delle pene in ogni ben regolato e civile governo”, dispone: “Che vengano chiusi ed aboliti perpetuamente i così detti animali o segrete, di qualunque natura, in tutte le carceri e luoghi di detenzioni della capitale”. Va considerato che la competenza del Romano, da capo della polizia, è limitata alla città di Napoli, perché la competenza generale per il regno è invece del ministro.
L’azione riformatrice del Romano continua, ma a questo punto dà l’impressione di essere rivolta più che altro ad acquisire titoli verso il successore del re borbonico, perché la situazione del Regno delle Due Sicilie è perduta e un uomo delle capacità di Romano non può non essersene reso conto. È interessante notare che il Romano, da ministro dell’interno non vuole occuparsi soltanto della polizia e soprattutto non imposta il suo ministero in funzione repressiva. Con la popolazione, nei suoi manifesti sollecita il dialogo con la popolazione. Egli tende a una visione ampia del suo ministero, indirizzandola anche ai lavori pubblici che intende come baluardo della sicurezza interna: “Fra le importanti gravi incombenze, che nel presente debbono starle altamente a cuore,” – è una circolare del 2 agosto 1860 agli intendenti – “non ultima dev’essere quella di provvedere all’attivazione delle opere pubbliche. Ed invero queste, mentre talune aggiungono lustro e decoro al nostro reame ed altre come le novelle vie tornano di grandissima facilitazione all’industria e al commercio, producone sempre un utile immenso, quello di apportar lavoro alla classe degli operai. Onde ben si comprende quanto giovi alle vedute di ordine pubblico e di consolidamento delle moderne, libere istituzioni, il mantenere occupato un esteso numero di persone, le quali altrimenti astrette dal bisogno, potrebbero rendersi facile strumento dello sfogo di tutte le più vive passioni e prestasi di leggieri all’agistazione e al disordine”.
I lapidatori di Romano forse non sano che l’utilizzazione giudiziaria dei criminali, gli “infami” era pratica antica del Regno di Napoli, imitata poi in altri paesi. Ritenuto, fondatamente, che allo stato mancassero le forze per contenere quel fenomeno che egli riteneva criminale, ma frutto di condizioni del tutto particolari di degrado sociale e miseria, si fa venire in casa “il più rinomato” capo camorrista. E apertamente gli dichiara che lui e i “suoi amici” amici erano stati “sospinti” in quella condizione dalla “imprevidenza del governo, la quale avea chiuso tutte le vie all’operosità priva di capitali” e che era perciò sua intenzione “tirare un velo sul loro passato e chiamare i migliori fra essi a far parte della novella forza di polizia”. Fino al punto di chiamare effettivamente alcuni di loro “a far parte delle novella forza di polizia, la quale non sarebbe stata più composta di tristi sgherri e di vile spie, ma di gente onesta, che, bene retribuita, de’ suoi importanti servizii, avrebbe in breve ottenuto la stima de’ proprii concittadini”. Organizza così una nuova forza di polizia: “Frammischiai fra questi l’elemento camorrista, in proporzione che, anche volendolo, non potea nuocere” li divise “in pattuglie” che “scorressero immantinente tutti i quartieri della città”. Ai “puritani” Romano ricordò che il suo “compito era quello di salvare l’ordine” e conclude di averlo salvato “col plauso di tutto il paese”: il suo scopo, egli dice, era quello di “neutralizzare il disfare”. Rese inoltre meno fiscale e rigoroso il controllo della stampa, mostrando anche in questo una concezione liberale e avanzata.
Solo se si rifletta che si era nella prima metà dell’ottocento, e che la sociologia era ancora tutta da scoprire, si riesce a valutare quanto realistico, politico e quindi umano fosse l’approccio del Romano. Questo appare particolarmente importante per comprendere le sue straordinarie capacità politiche. Egli ebbe insomma una vocazione riformatrice, ma il re borbonico non aveva cultura e sensibilità per capirlo. Liborio Romano dimostra una capacità moderna di valutazione del peso della pubblica opinione. Le sue, che oggi possono sembrare considerazioni ovvie, riportate a quel tempo acquistano ben altro valore. Romano ha sempre una visione d’insieme delle cose, e pur con tutta la prudenza accenna al re ai gravi problemi internazionali. Con Garibaldi, abbiamo visto che Liborio Romano riesce a inserirsi subito. Dapprima sventa un tentativo insidioso, che veniva da un gruppo idealmente più vicino al nuovo corso che ai Borbone, mentre lui ministro borbonico vicino lo era stato fino all’ultimo giorno. Si era trattato di questo. Garibaldi gli conferisce la carica massima del suo governo. Non si può ritenere che un uomo politicamente e umanamente navigato come Liborio Romano prendesse sul serio la carica di componente il governo dittatoriale di Garibaldi, anche perché all’impronta assoluta del capo si doveva aggiungere la pratica ingovernabilità. Sa tuttavia che quella carica costituisce uno straordinario titolo di merito per rilanciarsi nel nuovo corso politico.
Ministro dell’interno torna a esserlo con la luogotenenza del principe Eugenio di Savoia Carignano. Con determinazione, chiede al presidente del consiglio, Camillo Benso conte di Cavour, una considerazione particolare per il Mezzogiorno. Nel Regno d’Italia incomincia quindi a essere considerato un estraneo. Non doveva aver valutato bene quello che stava succedendo; anzi voleva volgerlo a difesa degli interessi dei meridionali. Non si dà per vinto, e si presenta alle elezioni del 1861. Viene eletto in nove collegi contemporaneamente: un trionfo che nel nuovo regno non si ripete per nessuno. Per quattro anni fa sentire la sua voce al parlamento di Torino. Con un memoriale pugnace, cerca in Cavour un interlocutore per gli interessi dei quali si sente investito dal voto. Il suo disegno di costruire un’Italia senza divisioni e risentimenti, fallisce e gli eredi di Cavour lo mettono per sempre in disparte. Rieletto, pungola ancora il governo con interpellanze e interogazioni. Nel tardo 1866 si ritira a Napoli a scrivere le memorie. Con umana ambizione, ha preparato minuziose memorie autobiografiche, nelle quali sfuma qualche dettaglio che non gli sarebbe stato favorevole. Dopo l’unità d’Italia, Liborio Romano non voleva convincersi che i tempi erano davvero cambiati, e che neppure la sua loggia, di diversa osservanza rispetto a quelle dei vincitori, poteva più salvarlo. Voleva affermare interessi e caratteri peculiari del Mezzogiorno nel clima della rapida piemontizzazione. Nella sua azione politica, ebbe chiari peculiarità e interessi del Mezzogiorno, e cercò inutilmente di farli valere nel nuovo regno. Camillo Benso di Cavour doveva stimarlo, ma forse proprio per questo seguì i consigli dei nuovi ministri che vollero tenerlo in disparte, portandogli tuttavia rispetto. Morto Cavour, i suoi successori gli chiusero tutti gli spazi, costringendolo a ritirasi dalla politica. Se ne torna in grande tristezza a Patù. E muore d’un malanno atroce che riassumeva i problemi del Mezzogiorno unito a quell’Italia nella quale credeva: ma non s’era accorto ch’era cambiato proprio tutto. Era stato colpito da un colera fulminante. Muore il 17 luglio 1867, a settantaquattro anni. Discendeva da un Romanov, venutosene dalla Russia nel Salento verso la fine del ‘500. Un personaggio così, conserva qualche ragione per interessare e incuriosire. La storia lo mise al bando. Lo disse trasformista – ed era vero – ma si era accorta piuttosto che sapeva fare politica, in climi diversi, sostenuto da votazioni plebiscitarie del suo ceto, perché gli altri, che pure gli manifestavano sostegno, non votavano. Ingiusta, quella rappresentazione, lo era anche perché non riconosceva la capacità politica del Romano che seppe operare in un regime assoluto senza assumersene le responsabilità dispotiche. Operò in condizioni ardue, riuscendo però a costruire all’interno del sistema di potere i consensi necessari. Con doti di vero uomo politico, dotato di equilibrio, duttilità pur guardando al di là delle contingenze. Naturalmente fu mosso anche per finalità proprie e familiari, ma senza che gli potessero mai imputare gravi scorrettezze. Egli riuscì infatti a proporsi ai nuovi regimi avendone in qualche misura anticipato i programmi. Nico Perrone

Liborio Romano, Memorie politiche,

a cura di Fabio D’Astore, Milano, Giuffrè, 1992.
Liborio Romano, Scritti politici minori,
a cura di Giancarlo Vallone, Lecce, Centro Studi Salentini, 2005.
Francesco Accogli, Il personaggio Liborio Romano,
Parabita, Lecce, Edizioni Il Laboratorio, 1996.
Antonio De Leo, Don Liborio Romano ,
Soveria Mannelli, Catanzaro, 1982.
Giancarlo Vallone, Dalla setta al governo ,
Napoli, Jovene, 2005.
Vittorio Zacchino, Liborio Romano il grande calunniato ,
Galatina, Lecce, Grafiche Panico, 1995.

A Patù (Lecce), l’Associazione Don Liborio Romano - curata con passione da Giovanni Spano - conserva copia di documenti concernenti quest’uomo politico.

Articolo apparso su STORIA IN RETE N.28 Febbraio 2008

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Autore: Nico Perrone

Data di pubblicazione: 04/04/2008

Testata: STORIA in rete

 
 
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