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Articolo giornalistico dedicato a Don Liborio Romano, raccolto da Giovanni Spano

Titolo: L'Unità d'Italia di Liborio Romano

Liborio Romano illustre salentino ....... per pochi , sconosciuto per molti, denigrato da altri. Un salentino che partendo da un piccolo paese del profondo sud, raggiunge i più alti gradini della notorietà, a Napoli nel 1860 (Unità d'Italia), diventando Prefetto di polizia e Ministro dell'Interno. Ha avuto a che fare con Garibaldi, Cavour, Francesco II° e Vittorio Emanuele II°. Cosa rimane a Patù di questo concittadino ? Il palazzo di famiglia, la cappella gentilizia e la cappella dove riposano le sue spoglie. Nel piccolo centro salentino, c'è l'associazione culturale “don Liborio Romano” a lui intitolata, oltre ad un sito internet,con lo stesso nome, che operando da venti anni circa, cerca di rivalutare la figura di don Liborio, come amorevolmente veniva chiamato dal popolo napoletano. Il 16 aprile, il suo palazzo, acquistato dal Comune, sarà inaugurato, aperto al pubblico ed adibito a museo e biblioteca comunale. Liborio Romano, nasce a Patù il 27 ottobre 1793, dove muove i suoi primi passi, nutrendosi della cultura di famiglia che era di fede liberale ed unitaria. Cresce in una famiglia nobile, una delle tante dell'epoca; suo padre Alessandro è commerciante, sua madre Giulia Maglietta, la famiglia è composta da sette figli, quattro maschi e tre donne, dei quali Liborio è il più grande, seguono Gaetano, Elisabetta, Giovanni, Marta, Giuseppe e Rosa. Della famiglia, fa parte anche lo zio Angelo, avvocato. Liborio da Patù va a Lecce, dove comincia e completa i suoi studi classici, sotto la guida del letterato e poeta Francesco Bernardino Cicala. Nel 1817 si reca a Napoli, per proseguire gli studi, nella scienza delle leggi, ebbe come maestri il Sarno, il Gerardi e il Giunti, nel 1819 si laurea. A Napoli si avvicina alla carboneria, entrando in contatto con Poerio e con Gabriele e Guglielmo Pepe. Nel 1820 viene inviato in Terra d'Otranto per raccogliere i militi sbandati sotto la bandiera costituzionale. Nel 1820 fu condannato al confino a Patù dove risiede per due anni. Per intercessione del suo maestro Felice Parrilli, ottenne il permesso di recarsi a Lecce per esercitare la propria professione di avvocato, fino all'agosto del 1824, data in cui si trasferisce a Napoli, ed ancora su di lui si abbatte la tegola della giustizia, (anzi dell'ingiustizia), è obbligato a risiedere a Napoli dal settembre 1824 fino a marzo 1825, poi ottiene di andare a Trani per l'espletamento della sua professione. Così continua una serie di accuse e persecuzioni, con l'Intendente Cito che continuerà a perseguitare Liborio Romano e la sua famiglia, con accuse generiche, infondate, che poi si riveleranno vuote. Intanto il Romano viene prima accusato da una relazione del Regio giudice di Ruffano, che inoltra a Napoli, una dichiarazione del Notaio Giannetta di Specchia su una Setta. Il 7 giugno 1825, Oronzo Gabriele Costa,di Alessano, dichiara che in una riunione settaria in casa di don Pasquale Ferrante di Martignano, (caso strano), ricorda solo il nome di Liborio Romano. Ancora denunziato dal Valentino Valentini, di Morciano, per dei vecchi rancori. Don Giacinto Toma, di Maglie, sotto interrogatorio, include il Romano, nella lista dei settari della Provincia di Lecce. Nel 1825, il Romano, occupato a difendersi dalle varie calunnie ed accuse, sostiene una sola causa. Il 17 gennaio 1826 alle ore 22.45 viene arrestato a Trani e tradotto a Napoli nel carcere di Santa Maria Apparente, dove resterà sette mesi, viene scarcerato il 23 agosto 1826. Il 18 gennaio 1826 a Lecce, viene arrestato anche il fratello Gaetano. Nel 1826 Liborio Romano sostiene solo tre cause e quattro nel 1827, e poi nove nel 1828. E poi sempre crescendo fino a settanta , ottanta per anno. Il suo studio a Napoli, diventa sempre più importante, dove collaboravano altri quattordici avvocati, tra i quali, i fratelli Gaetano e Giuseppe, Libertini Giuseppe e Giuseppe Pisanelli di Tricase. Al Romano si fanno tante accuse, ma ad oggi ancora nessun documento certifica la disonestà. Una lode del fratello Giuseppe, non suona falsa in proposito: “....ed avrebbe potuto, nonostante la rovina fatta dalle persecuzioni politiche, accumulare dall'esercizio dell'avvocheria un buon patrimonio; ma del denaro non curavasi e come aveva il bastevole pel modesto suo vivere, non pensava al resto”. (Ghezzi p.24). Nel 1833 difende il fratello Giuseppe. Nel 1836 difende l'Inghilterra contro il reame borbonico, nella “Questione degli zolfi”, vincendo la causa. Questi compose una memoria, sostenendo con tanto vigore l'arringa, che la polizia ne vietò la stampa. (Ghezzi p.70 – De Sivo Storia di Napoli). La sua carriera forense, fu costellata da una sola politica: l'accordo prima di ogni cosa, spesso difendeva la povera gente, senza alcun compenso. A Napoli egli riscuoteva la stessa simpatia da cui era circondato nella terra natale. Nel 1837 il caso mise in evidenza queste sue doti di bontà, difende gratuitamente Geremia Mazza suo assistente, dall'accusa di cospirazione politica mossa dal fratello Orazio Mazza,”ignobile sgherro della polizia borbonica”. Geremia fu condannato. Per tutto il tempo dell'esilio in Germania, don Liborio, non abbandonò i familiari perseguitati, e ne curò l'assistenza. Nel 1848, non viene eletto deputato per quattro voti, ne prende 1496 su 1500 occorrenti per essere eletti. Non essendo stato eletto, non fa nulla per accaparrarsi qualche carica pubblica, si tiene in disparte, ma dati i moti del 1848, lui viene preso come caprio espiatorio e sul finire del 1849 viene imprigionato nuovamente, ritorna in Santa Maria Apparente, dove resta altri due anni senza alcun processo. In carcere sta con Scialoia, Vacca e Giannattasio. Commenta il Lazzaro: “strappato duramente da mezzo i numerosi e importanti suoi affari, non indurito ai gravi disagi delle persecuzioni politiche, di età non più giovane, di natura mitissima e dolcissima, soffrì molto di questo secondo imprigionamento. (Ghezzi p.73) La data di questo secondo arresto, non è chiara, infatti, risulta: sul finire del 1849 su (Il mio rendiconto politico pag.11) e febbraio 1850 (Memorie politiche pag.7-8). Nel 1851 chiede la grazia al comm.Gaetano Peccheneda, che la concede dopo un'altro anno di carcere, ma per inviarlo in esilio in Francia, dove rimane dal 4.02.1852 fino al 25.06.1854 prima a Montpellier e poi a Parigi. In un primo momento, Liborio Romano, non firma la domanda di grazia formulata dal Mazza, ma maturando alcuni avvenimenti nella sua famiglia: arresto del fratello Giuseppe, morte della madre, il fratello Giuseppe, lo esorta a tornare in patria sia pur firmando la dichiarazione di polizia, Giuseppe nella lettera del 28.05.1854 gli invia la supplica per la grazia. Infine Liborio Romano , firma il documento. Nel settembre del 1859,perseguitato dall'Aiossa capo della polizia, sfuggì all'arresto, protetto dal Conte d'Aquila, suo amico, che lo ospitò in casa sua. Il 25 giugno 1860, il Re firma l'atto sovrano, che accorda l'amnistia generale per i perseguitati politici. Il nuovo gabinetto, porta al potere uomini nuovi di tendenza liberale quali Spinelli, Manna, Federico del Re e Liborio Romano nella carica di prefetto di polizia. Da questo momento in poi, il Romano viene alla ribalta, si intuisce il malcontento del popolo napoletano per le tardive concessioni, Napoli non ha più fiducia nel suo re. Sono come tante sentenze di morte, cui pare facciano eco le parole del vecchio Filangeri:”Lascio ad altri l'amaro uffizio di far da becchino alla dinastia. Quando tutti scappano, il Romano prende a cuore le sorti dei napoletani e li guida verso l'Unità, evitando una guerra civile. Il disordine in città, era in ogni angolo, la camorra potente, numerosissima attendeva la sua ora. Questa la situazione interna che Liborio era chiamato a chiarire. Che fare ? A chi rivolgersi ? Lo soccorre un'idea, dirò così, omeopatica: tentare di combattere il male col male stesso. La camorra era allora l'elemento di maggior pericolo. Bene: serviamoci della camorra (da qui l'accostamento del Romano alla camorra, che lo segue ancora oggi). Ne chiama a casa sua i caporioni: Michele ò Chiazzere, Schiavetto, Persianaro, De Crescenzio; si presenta loro bonariamente, parla con cordialità, ne solletica l'amor proprio, ne scusa i passati errori, e quando crede di averli confusi a sufficienza, propone la redenzione col mettersi alle sue dirette dipendenze. Eccellenza, siamo vostri – promisero quei popolani. Egli poi non commise l'errore di formare la polizia esclusivamente da costoro, ma aggiunse questa gente ai vecchi e ai nuovi funzionari, mettendo a capo, delle pattuglie chi ispirava più fiducia, o meglio, meno diffidenza. In ogni modo lo scopo urgente di soffocare i preparati tumulti fu raggiunto: Napoli rimase calma e non si ebbe a verificare in quei giorni il menomo incidente. Armati di bastone e distinti da una coccarda tricolore, i camorristi poliziotti erano di una straordinaria solerzia, talvolta anche eccessiva. Il provvedimento fu variamente giudicato allora e in seguito: gli storici lo hanno visto nel complesso dell'opera politica del Romano, e, come hanno giudicato l'insieme, così il particolare.  Il Lazzaro, a qualche anno dagli avvenimenti, encomia “lo squisito tatto pratico, che solo dottrinari meschini hanno potuto condannare”.  Nicola Nisco, anch'egli contemporaneo, giustifica pienamente il provvedimento, che “fece nascere dal disordine l'ordine e Napoli fu salvata dai misfatti e dalle rapine”.  Il De Cesare, molto più tiepido afferma: “Il provvedimento ebbe il suo bene e il suo male”. Ma che avesse il suo male ne era convinto lo stesso autore, il quale non si vantò mai di averlo ideato, anzi lo ha considerato sempre come un atto di disperazione, dettato proprio dalla eccezionalità dei tempi. (Ghezzi p.92-93-94) “Si condanni ora il mezzo da me operato: mi si accusi di avere introdotto nelle forze di polizia pochi uomini, rotti ad ogni maniera di vizi e di arbitri. Io dirò a codesti puritani, i quali misurano con la stregua dei tempi normali, i momenti di supremo pericolo, che il mio compito era quello di salvare l'ordine: e lo salvai col plauso di tutto il paese”. (L.R. Memorie politiche p.52) Il 27 giugno il Romano assume il prefettorato di polizia che durerà fino al 14 luglio 1860 (Marti p.36-38 note). La mattina del 28 giugno il nuovo prefetto di polizia, Liborio Romano, emana il suo primo manifesto, invitando i cittadini alla calma. La sua nomina aveva fatto piacere a tutti: al popolo minuto, che lo aveva sempre considerato un benefattore, ai liberali, che vedevano in lui una sicura salvaguardia, al conte d'Aquila, fermo nel convincimento che Liborio sarebbe stato docile strumento nelle sue mani, memore dell'aiuto ricevuto qualche mese prima. In fondo a tutto questo plauso vi è però l'equivoco di cui il Romano sarà vittima.(Ghezzi p.90) L'atto di don Liborio ebbe il suo bene e il suo male, e potè essere giustificato dalle circostanze.(De Cesare p.583 La fine di un regno) Il 14 luglio 1860 Liborio Romano assume la carica di MINISTRO DELL'INTERNO E DELLA POLIZIA. La situazione era sempre più difficile, disertori nell'Esercito e nella Marina, l'unico punto di forza del Romano era il consenso popolare, che non era poco, e servirà ad evitare guai peggiori alla popolazione. Oramai a Napoli regnava il disordine ed il malcontento. Liborio Romano si rende conto della disfatta, tra la monarchia oramai non più desiderata, sceglie il paese, per evitare al suo popolo una guerra civile, tanto da affermare: “Non pertanto convinto che se l'opera del ministro non valesse a salvare la corona poteva almeno salvare il paese da una luttuosa catastrofe o da una guerra civile,accettai il novello uffizio”. Oramai era una lotta aperta per il potere, Cavourriani, Garibaldini, Mazziniani, Dinastici, Antidinastici e in fondo la grande incognita popolare.(Ghezzi p.106) – (Memorie politiche p.) La guardia nazionale forte di seimila uomini, chiamava don Liborio il suo papà. Essa era comandata dal generale principe d'Ischitella, amico del Romano e amici erano i primi dodici capi dei battaglioni. Il 17 luglio uscirono le prime pattuglie, accolte da applausi strepitosi; e la sera stessa, l'entusiasmo non ebbe freno quando don Liborio con Ischitella andò a visitare i quartieri della guardia nazionale.(De Cesare - La fine di un regno pag.593-594) Cresce la notorietà di Liborio Romano, che con diversi stratagemmi, riesce a tenere sotto controllo la città di Napoli, preparandola all'arrivo di Garibaldi che oramai è alle porte. Consiglia al Re, Francesco II°, con il famoso memorandum, di lasciare Napoli per evitare alla città un bagno di sangue, il 6 settembre 1860 il Re si ritira a Gaeta, aprendo la strada a Garibaldi che dopo aver ricevuto le dovute assicurazioni da Liborio Romano, entra a Napoli, disarmato ed osannato dalla folla, questo avviene tra i festeggiamenti di accoglienza del dittatore Garibaldi. Ad accoglierlo ci sarà Liborio Romano, Antonietta De Pace ed il popolo napoletano in festa. Il 22 settembre il traghettatore Liborio Romano che fu ministro di Francesco II° e poi di Garibaldi, nel governo provvisorio, rassegna le sue dimissioni, avviando il cammino per l'Italia Unita, che può trovarci divisi per come è stata realizzata, ma concordi della necessità che unita ufficialmente nel 1861, continui ad esserlo per sempre, in modo che il sacrificio di tanti italiani non sia stato vano, come non deve essere vano il sacrificio di Liborio Romano che per i suoi ideali liberali ed unitari, ha sacrificato tutto, carriera professionale e politica e la sua immagine di persona onesta imbrattata continuamente dalla miopia di chi giudica senza essere in condizioni di farlo. La popolarità del Romano continua anche dopo l'Unità, infatti nel primo parlamento di Torino rappresenta gli otto collegi del sud che lo hanno eletto. Non altrettanto hanno fatto il parlamento ed i suoi “amici”, che non riconoscendogli lo spessore dell'uomo e del politico, lo hanno affossato con l'arma sempre valida della calunnia gratuita, ma efficace. Contro tutto questo si batte per i popoli del sud, fornendo al Cavour una lettera detta delle dieci piaghe, dove descrive per filo e per segno i problemi dei popoli meridionali, suggerendone anche i rimedi. Cavour conosceva il Romano attraverso i suoi consiglieri che certamente non erano amici di don Liborio, ma una volta conosciuto, lo ha definito la migliore testa del mezzogiorno d'Italia. Cavour muore subito, ed i sogni di entrambi non si concretizzano. Liborio Romano, oramai in età avanzata e pieno di malanni si ritira a Patù, dove il 17 luglio 1867 muore, le sue spoglie sono conservate nella cappella di famiglia di fronte al palazzo Romano, ora di proprietà del Comune di Patù, che lo ha acquistato, ristrutturato e trasformato in museo archeologico e biblioteca comunale. Parti dell'articolo sono tratte dal diario inedito in fase di completamento sul personaggio Liborio Romano a cura del sottoscritto. Patù 27.03.2011 Giovanni Spano Presidente Associazione culturale “don Liborio Romano” Patù www.donliborioromano.it – info@donliborioromano.it

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Autore: Giovanni Spano

Data di pubblicazione: 06/05/2011

Testata: Progetto Salento

 
 
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